25 agosto, 2005

Un po' di ECOlogia

Absit iniuria verbis.

A proposito dell’Epistola a Cangrande della Scala, che ascriverei ad uno dei figli di Dante, Pietro o Jacopo, Umberto Eco osserva che, anche qualora non fosse stata composta dal sommo poeta, “rifletterebbe comunque un atteggiamento interpretativo assai comune a tutta (sic) la cultura medievale e spiegherebbe il modo in cui è stato letto nei secoli Dante”.1

Tale affermazione mi trova del tutto in disaccordo: essa non denota solo ignoranza, di per sé veniale, ma anche un’assoluta ottusità, che non si può certo scusare né ammettere in un docente universitario quale Umberto Eco. Mi spiego: se l’intellettuale ignora René Guenon e altri interpreti che hanno messo in luce il substrato esoterico della Commedia, valore più importante dei quattro citati nell’Epistola, ossia il senso letterale, allegorico, morale, anagogico, non è colpa molto grave. Infatti nessuno è tenuto a conoscere ogni esegeta di Dante né è possibile. Invece la mancata comprensione del significato occulto che permea un’opera scritta da un eretico quale fu l’Alighieri, conoscitore della cultura islamica e vicino ideologicamente all’Ordine monastico-cavalleresco dei Templari, è inammissibile in chi dovrebbe avere almeno un po’ di dimestichezza con la Weltanschauung medievale.

Eco accenna al “modo in cui è stato letto nei secoli Dante”. No! È stato frainteso, distorto, non letto! Pochi sono riusciti o hanno voluto, seguendo il suggerimento dell’autore, sollevare il “velame delli versi strani”, rimanendo ad un livello di “comprensione” superficiale, quando non puerile. È anche il caso di Eco, che, con tutta la sua erudizione (forse proprio a motivo di ciò), non cultura, ha creduto di aver capito il “poema sacro”, accontentandosi dei quattro sensi spiegati dall’estensore dell’Epistola. Si è così fermato in limine, ma convincendosi –umana presunzione- di essersi inoltrato nel Sancta Sanctorum della poesia dantesca e della cultura medievale iniziatica, di cui non ha inteso uno iota.

Tuttavia l’imperdonabile gaffe di Eco è molto istruttiva: ci fa comprendere, per esempio, perché egli non abbia saputo cogliere quanto di vero e di inquietante si annida nella cosiddetta “teoria” della cospirazione. D’altronde, per parafrasare don Abbondio, potremmo asserire che “uno l’intelligenza non se la può dare”.

Infine diventa chiaro per quale motivo, il valido semiologo di Alessandria, abbia virato verso la pseudo-narrativa con titoli quali Il nome della sposa, l’ingiustamente famoso thriller demotico, L’Imola del giorno prima, Il dondolo di Foucault, Baudo e Lino e simile paccottiglia. In questi romanzi d’appendicite, Eco ha potuto esibire la sua scaltra inclinazione ad irretire, con una prosa artefatta e con vacuo sfoggio di dottrina, un pubblico di lettori poco consapevoli che si pavoneggiano, poiché pensano di essersi abbeverati alla fonte della sapienza.

Similes cum similibus facillime congregantur.

1 U. Eco, L’epistola XIII, l’allegorismo medievale, il simbolismo moderno, contenuto nel volume Gli specchi e altri saggi, Milano, 1985, p. 215.

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