07 settembre, 2006

Elogio della lentezza

Beata solitudo, sola beatitudo

Il motto latino festina lente, ossia “affrettati lentamente”, non mi trova concorde. Da che cosa deriva questa premura che c’incalza? Seneca, nel De brevitate vitae, descrisse in modo magistrale gli affaccendati oziosi che si affrettano senza tregua per tentare di riempire il vuoto delle loro insulse e convulse giornate.

Oggi il mito della velocità è diventato una sorta di moto immobile: tutti si precipitano, stringono i tempi per ritrovarsi sempre nel punto di partenza. La società attuale esige efficienza, tempestività, rapidità negli spostamenti, ma siamo in preda ad una folle frenesia, siamo ingranaggi di un meccanismo che muove solo sé stesso.

Il sistema, in cui l’informatizzazione ha reso parossistica ma immotivata la richiesta di celerità, esige che le persone siano sempre occupate, assillate da impegni e scadenze, affinché non si fermino mai a riflettere e ad osservare: il pensiero e la capacità di osservazione sono mortali nemici di un sistema perverso, in cui il lavoro non serve tanto a produrre, ma a distruggere e ad inebetire.

Contro tutto ciò, è necessario recuperare, quando possibile, del tempo che sia otium, lontano dal frastuono della fretta, dal turbinio della velocità. È doveroso rifugiarsi, se possibile, nel silenzio e nella solitudine, non per ritrovare sé stessi, ma per perdersi. Nell’annullamento di sé stessi, si annichilisce anche il mondo, con tutte le sue vane apparenze.

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