25 febbraio, 2012

Le confessioni di un Illuminato

Non si giudica un libro dalla copertina: così non è opportuno formulare un giudizio sul libro di Leo Lyon Zagami, “Le confessioni di un Illuminato, vol. 1”, proprio perché è solo il primo sportello di un trittico. (Riusciremo a leggere gli altri due volumi, prima che la situazione precipiti?)

Perciò mi limito alla presentazione di un testo che è un’esplorazione di confraternite e sette che, da secoli, agiscono dietro le quinte della storia ufficiale, dirigendo in maniera segreta ma incisiva il destino dell’umanità. L’autore distingue tra conventicole iniziatiche (poche) e contro-iniziatiche (molte), dedicando ampio spazio a quegli ordini, come l’Ordo Templi Orientis (O.T.O.), che, detenendo conoscenze magiche ed alchemiche, le piegano per perseguire fini nefandi. Spicca dunque il ritratto di Aleister Crowley, riorganizzatore dell’O.T.O., sinistra figura di mago che, nonostante qualcuno abbia tentato di riabilitare, assurge a mentore di frange occulte dedite a pratiche innominabili.[1] Purtroppo Zagami non descrive sette formate da personaggi squilibrati, ma, tutto sommato, quasi innocui, giacché l’influsso di codeste camarille è tutt’uno con la bieca politica internazionale volta all’ormai imminente edificazione del formidabile Nuovo ordine planetario.

Zagami si sofferma pure sul Priorato di Sion e sui movimenti neo-templari, con un’interessante digressione circa l’attentato di Oslo, perpetrato il 22 luglio del 2011. Ripercorre anche la genesi e lo sviluppo dello spionaggio (il matematico, scienziato ed occultista inglese John Dee è ricordato come il precursore degli agenti attuali) e si accosta all’Ufologia, con una particolare diffidenza (condivisa da chi scrive) nei confronti di contattisti e studiosi che, con poco discernimento, non si accorgono delle insidie annidate in incontri con entità le cui “luminose” intenzioni nascondono pericolose interferenze. [2]

Le rivelazioni di Zagami, intrecciate a cenni alle sue vicende biografiche, offrono uno spaccato di un mondo “parallelo” in cui dominano infiltrazioni, scismi, lotte intestine, congiure, omicidi, stragi di stato…: chi ha una discreta conoscenza di questi scabrosi temi troverà la conferma di quanto l’umanità sia soggiogata e degradata, dietro il controllo politico ed economico, da forze imperscrutabili e mefitiche. Chi non ha dimestichezza con tali interpretazioni sarà guidato dal capitolo introduttivo in cui l’autore traccia una tassonomia delle società segrete. Il deleterio ruolo di Gesuiti, gruppi neo-templari, logge deviate, movimenti New age… è così riletto alla luce delle loro caratteristiche tipologiche.

Lo scenario resta, però, intricato, per la connaturata elusività di un potere che, sfuggendo a facili focalizzazioni, si situa nella zona crepuscolare tra possibili verità e la loro ombra.

[1] Aleister Crowley (1875-1947) è stato un artista, poeta, alpinista, pensatore, critico sociale ed occultista britannico. Figura assai controversa, è da alcuni considerato l’iniziatore dell’odierno occultismo, da altri ritenuto uno dei principali corifei del satanismo contemporaneo.

[2] John Dee (1527-1608), astrologo, scienziato ed astronomo, fu in contatto con Maria Tudor, Elisabetta I e l’imperatore Massimiliano II di Boemia. Lo scienziato ed avventuriero fu versato, tra le altre cose, nella cristallomanzia. Egli, dopo aver ricevuto da un misterioso fanciullo un cristallo convesso, decise di dedicarsi alla comunicazione con il mondo spirituale. In riti ed evocazioni, fu affiancato da Edward Kelly, personaggio di dubbia reputazione, con cui si dedicò alla necromanzia. Dee affermò di aver appreso da messaggeri di un’altra dimensione un particolare alfabeto, definito enochiano.

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22 febbraio, 2012

"Cause"

Felix qui potuit rerum cognoscere causas": così scrive Virgilio, ossia “Fortunato chi ha potuto conoscere le cause delle cose”. Il poeta di Andes esprime dunque la sua ammirazione di fronte a colui che è stato capace di sviscerare la ragion d’essere del mondo e di penetrare nella loro essenza.

Purtroppo oggi il concetto di causa è stato semplificato: vi si scorge quasi sempre un antecedente di un effetto. Così certo non lo concepiva l’autore latino. Nonostante secoli di filosofia e le intuizioni di qualche scienziato, la “causa” è sic et simpliciter la cosa che accade prima: è tutto molto elementare e riduttivo.

Così, di fronte a fenomeni complessi, ci troviamo inermi, abituati come siamo a ricercare il motivo scatenante, laddove una costellazione di origini può generare una raggiera di conseguenze.

Paghiamo lo scotto di un approccio tanto superficiale, quando tentiamo di comprendere la scaturigine di una malattia: in verità, la ragione che porta all’insorgenza del problema, può non solo essere molto ramificata, ma avere radici profonde allignate in un sottosuolo (l’inconscio?) di cui non sappiamo nulla o quasi. Sepolto sotto numerosi strati, il conflitto da cui deflagra spesso ex abrupto la patologia, non affiora, se non con un’opera di scavo che, mentre porta alla luce le radici, rischia di privare la pianta dell’humus vitale.

E’ dunque necessario esplorare le manifestazioni e le matrici della disfunzione ad ampio raggio, senza accontentarsi di instaurare un nesso unilaterale ed univoco tra eziologia e sintomo. L’essere vivente manifesta una notevole complessità, ogni essere è dissimile da tutti gli altri: ha la sua storia, il suo temperamento, il suo vissuto. Una vera anamnesi implica una ricostruzione accurata, l’attitudine a risalire a motivi remoti e reconditi. Giorgio Mambretti sostiene che il retroterra di molte affezioni coincide con la prima infanzia, con la vita prenatale, se non è addirittura abbarbicato alle esperienze dei genitori e degli avi. Si comprende come sia arduo scoprire dei presupposti (traumi, complessi, predisposizioni) di cui non si è consci. Infine interno ed esterno, fisiologia ed ambiente interagiscono in modo continuo sicché non è facile stabilire dove cominci l’influsso dell’una e finisca quello dell’altro.

In ambito scientifico, il meccanico rapporto tra causa ed effetto rischia di sclerotizzare l’indagine. Anche qui occorre molta duttilità, se non si vuole cadere nell’ottuso e dogmatico “metodo scientifico” degli scientisti che costruiscono modelli rigidi in cui i fenomeni sono chiariti e spiegati, ancora prima che siano osservati, sulla base di schemi e di a priori sequenziali. La causa non sempre precede l’effetto, poiché può provenire dal futuro. Il post hoc non è necessariamente il propter hoc: una costellazione di influssi, molti dei quali sottili, tendono ad indirizzare il corso degli eventi, quando non intervengono sovrapposizioni e sincronie che esulano dal legame causale.

Le cosiddette leggi scientifiche non sono norme giuridiche. Nelle concatenazioni gli anelli mancanti sono più degli altri. Il mondo rivela una quintessenza talora controintuiva ed antinomica, insofferente di paradigmi immutabili. E’ necessario rivisitare consolidati modelli interpretativi ed essere disposti ad accettare fratture epistemologiche.

E’ compito immane che solo qualche solitario ha adempiuto ed adempie con abnegazione. Il vero ricercatore non si limita a descrivere il fenomeno, ma tenta di inoltrarsi nella sua natura. Anche della natura ricerca la sorgente, la motivazione primigenia, in un movimento inesausto, anche se spesso destinato a naufragare contro lo scoglio dell’incomprensibile.


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18 febbraio, 2012

Eraclito versus Democrito

Si racconta che Eraclito (Efeso, 550 a.C. circa, 480 a. C. circa) rispondesse allo spettacolo del mondo con il pianto, in netto contrasto con la solarità di Democrito (Abdera, Tracia, 460 circa, 370 a.C. circa).

“L’iconografia occidentale ha abbondantemente opposto il riso di Democrito, il poeta dalla scrittura chiara, alle lacrime di Eraclito, il bilioso, soprannominato l’Oscuro. E da Diogene di Sinope a Nietzsche, da Aristippo di Cirene a Michel Foucault, si ritrova, come tratto comune ai materialisti, edonisti ed altri grandi sovversivi della storia delle idee, questa capacità di ridere del mondo così com’è. Ridono solo quelli che prendono il mondo sul serio, proprio perché lo prendono sul serio.” (M. Onfray)

Sono stati scritti molti saggi sul riso come peculiarità dell’uomo (celebre lo studio di Henry Bergson) e, di là dalle differenti interpretazioni, talora forzate, si riconosce che sono proprio le contraddizioni del reale ad accendere la scintilla dell’ironia, della risata catartica, del ghigno amaro, del compiacimento, dell’umorismo pirandelliano.

Ci si chiede se la visione del mondo possa suscitare letizia o tormento. Quale mondo? Quello ancora tollerabile degli antichi o il nostro abominevole? La natura? Si afferma che la natura è perfetta: la considererei efficiente, non perfetta. Se l’universo fosse perfetto… L’umanità? L’umanità è talmente antinomica che non mi sorprende di constatare quali impulsi ambivalenti, irriducibili tra loro ci leghino ad essa e, nel contempo, ce ne separino. Prendere sul serio il mondo, come scrive Michel Onfray? Se veramente lo prendiamo sul serio, se lo consideriamo nella sua severità, abbiamo fondati motivi di dolerci: il riso rischia di essere la reazione istrionica di fronte all’incomprensibilità dell’essere. Mi pare che alcuni eventi siano refrattari al riso e non solo perché tragici ed assurdi (si entri in un nosocomio, in un carcere, in un ospizio, in un macello…), ma poiché denunciano l’insufficienza della condizione umana.

Così, paradossalmente, è più ironico Eraclito (ironia è proprio coscienza del divario tra reale ed ideale) di Democrito: le lacrime del filosofo efesio sono forse la consapevolezza del contrasto, dell’ineluttabile conflitto (pòlemos) universale. Nietzsche vide in Eraclito l’espressione dell’innocenza dionisiaca del mondo, di là dal bene e dal male, anteriore al declino moralistico socratico-platonico. Dioniso, però, è dio tragico per antonomasia: l’innocenza non è candore. Nel dio nato due volte non si distingue più tra la smorfia di dolore ed il ghigno sardonico.

Il pàthos sa essere grottesco; il ridicolo è patetico. Infine, di fronte alle realtà che trascendono le opposizioni, resta solo la domanda che subito si congela nel silenzio.

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06 febbraio, 2012

Norme e regole

Ci insegna Roman Jakobson che i sinonimi perfetti non esistono. Così “norma” non equivale a “regola”. La prima è coercitiva: sono gli stati a dettare le prescrizioni, rigide ed invalicabili. Norma consuona con “normalizzare”, terribile verbo: che cos’è, però, la cosiddetta normalità, se non la schiavitù eretta a valore, se non l’omologazione che assurge a pensiero unico? Sulle norme e sul senso comune, il narcotizzante common sense dei borghesi ”manichini ossobuchivori”, si è costruita codesta società in cui lo scarto dal precetto è additato come eresia. Il pensiero divergente, da cui scaturiscono la queste filosofica e l’avventura estetica, è stato fagocitato dalla normativa scientifica. La scienza accademica è un corpus di leggi: la scienza è canonizzata.

La regola, invece, è – come ci rammenta l’etimologia - un principio regale, radicato nella coscienza (per chi ne ha una): la regola non è solo diversa dalla norma, ma ad essa si oppone, poiché è insofferente delle stolide direttive del sistema e dell’ideologia dominante. Nel Vangelo è scritto che “la legge è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge”. E’ così. La regola trova il suo baricentro, il suo lebensraum nell’interiorità. Se è veramente tale, tocca un punto di equilibrio dove l’uomo non è dominato da alcunché e nulla deve dominare per essere sé stesso.

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04 febbraio, 2012

X Times di febbraio in edicola

E' in edicola il numero di febbraio di "X Times", la rivista diretta da Lavinia Pallotta e da Pino Morelli. Leggi qui l'editoriale ed il sommario di questo numero.

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01 febbraio, 2012

Il problema del libero arbitrio in Searle (prima parte)

John Roger Searle (Denver, Colorado, 1932) è il filosofo statunitense che ha elaborato in forma sistematica le indicazioni teoriche di Austin sugli atti linguistici. Nel saggio del 2005, “La mente”, il pensatore “ci rivela gli aspetti segreti e sconcertanti di quell’elusiva entità che chiamiamo appunto mente umana. Comparsa dell’intelligenza, natura della coscienza, possibilità di un libero arbitrio, debolezzza della volontà, struttura della decisione: tutto questo ed altro ancora è al centro della riflessione di Searle che ci conduce ad esplorare il complesso rapporto tra ll’io ed il mondo”.

Il libro offre una panoramica delle ipotesi formulate da Searle sulla natura della mente con un linguaggio in genere accessibile. L’orizzonte teorico si colloca in un materialismo, per così dire, debole: la mente è considerata da Searle uno stato che dipende dalle funzioni cerebrali, ma ad esse non riducibile. Nel quadro di una trattazione di cui si apprezza la coerenza interna, l’autore approccia il problema del libero arbitrio con il rigore e la prudenza di cui un tema tanto spinoso abbisognano. Riassumo i concetti salienti della sua analisi per poi svolgere alcune riflessioni, non sconfinando dal cerchio esplorativo dell'autore.[1]

Il libero arbitrio è un problema per eccellenza, perché si nutrono normalmente due convinzioni inconciliabili: da un lato l’adesione al determinismo del mondo fisico, dall’altro il convincimento che gli uomini sono dotati di libertà. Tuttavia libero non si oppone a determinato (causato), ma a forzato, sotto costrizione. Una persona ipnotizzata o una soggetta ad una compulsione sono forzate, quindi non sono libere.

Ci si deve chiedere quali siano le condizioni causalmente sufficienti atte a determinare quell’azione e non un’altra: questo non c’entra con la responsabilità morale. Si devono considerare due opzioni: la prima (ipotesi 1) teorizza il determinismo ed il cervello meccanico; la seconda (ipotesi 2)l’indeterminismo ed il cervello quantistico. “Data la prima ipotesi - spiega Searle- dobbiamo assumere che l’encefalo sia una macchina nel senso tradizionale dell’antiquato motore a scoppio, di quello a vapore e dei generatori elettrici… Il cervello è un organo come tutti gli altri e non dispone di libero arbitrio più di quanto ne disponga il cuore, il fegato o il pollice sinistro… Quanto all’ipotesi 2, non è affatto chiaro quale genere di meccanismo il cervello debba essere affinché il sistema presenti il grado giusto di indeterminazione. Stiamo assumendo che il cervello, al suo livello più elementare, sia non deterministico, vale a dire che lo iato, effettivamente esistente al livello più alto, si estenda fino alla base, fino al livello dei neuroni e dei processi subneurali”.

Esiste in natura un àmbito che presenta una componente non deterministica ed è quello della meccanica quantistica: in questo contesto, uno stato è responsabile causalmente di un altro stato solo in modo probabilistico, aleatorio. “La casualità dei microprocessi quantistici che provocano al macrolivello i fenomeni di coscienza non implica che i fenomeni di coscienza siano causali”… Dobbiamo supporre, allo stato attuale della fisica e della neurobiologia, che vi sia una componente quantistica della coscienza… L’ipotesi 2, implausibile, nega che il cervello sia un organo come tutti gli altri ed attribuisce un ruolo speciale al libero processo decisionale cosciente”. Searle conclude in maniera interlocutoria: non sappiamo in realtà come il libero arbitrio possa esistere nel cervello, ammesso che esista, ma sappiamo di non poter sfuggire alla convinzione di essere liberi: non possiamo agire, se non presupponendo la nostra libertà.

[1] Sono osservazioni collocate grosso modo nel quadro della filosofia di Pearle: questo non significa che chi scrive aderisca del tutto al suo pensiero. Del volume in esame, ad esempio, non mi convincono né l’assunzione del nesso causale tra stati cerebrali e stati mentali né il realismo ingenuo.

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