28 giugno, 2012

Lacerazione

Le presenti note saranno meglio comprese, se prima si leggeranno “Peccato originale” e gli articoli correlati.

Se pensiamo all’incidente primigenio, dobbiamo risalire ad un’era antecedente la storia, ad un tempo che precede il tempo stesso. Lo intuisce Simone Weil nei “Quaderni” dove scrive: “L’Agnello è stato sgozzato sin dalla fondazione del mondo: è il rapporto con lo spazio-tempo a costituire la lacerazione”. Lo sgozzamento è quindi contemporaneo, anzi consustanziale alla “fondazione del mondo”. L’essenza alogica (non aristotelica) del mondo è poi espressa dalla pensatrice cristiana con parole ancora più forti: “La Creazione, l’Incarnazione, la Passione costituiscono la follia di Dio.”

La stessa nascita dell’uomo implica lo strappo: infatti l’uomo è letteralmente un simbolo, ossia metà di un uomo (si pensi anche a Platone che considera gli esseri umani dimidiati ed alla ricerca della metà che li reintegri, acquietando la loro angoscia). Il simbolo (Σύμβολον) per gli Elleni era una "tessera di riconoscimento" o "tessera ospitale": l'usanza voleva che due individui, due famiglie o anche due città spezzasero una tessera, di solito fittile, per conservare una delle due parti a conclusione di un accordo o di un'alleanza. Il perfetto combaciare delle due parti provava l'esistenza dell'accordo. Quindi siamo frammenti staccati dall’Essere, schegge proiettate ai confini del cosmo. Cerchiamo di ricongiuncerci all’Origine, ma le correnti ci hanno spinto e ci trascinano alla deriva.

Ogni creazione implica un cambiamento, un movimento entropico, persino una distruzione: forse nell’atto creativo è la scaturigine del male? Sempre la Weil si chiede: “L’universo è un’opera d’arte: quale artista ne è l’autore?”

Alla visione religiosa e mistica della Weil (di un misticismo tormentato), vorrei accostare le riflessioni di un laico, Sebastiano Vassalli che, nel romanzo “Marco e Mattio”, si perde negli abissali pensieri del protagonista, mentre contempla il pulviscolo delle stelle: “Camminava su quei pianeti sconosciuti e vedeva che gli esseri che li popolavano, gli animali forniti di ragione che avevano talvolta forma di ragno o di scimmia, talvolta erano piccoli come formiche oppure grandi come montagne, però sempre e dappertutto nascevano e morivano, gioivano e soffrivano e vivevano lacerati dai contrari che non riuscivano a compensare in loro e tra loro, fino a comporre un vero equilibrio… Dovunque nell’universo la colpa originaria doveva ancora essere patita ed espiata, in tutti i mondi doveva ancora compiersi la redenzione anche là dove già s’era compiuta una volta. Che follia credere che per un milione di mondi o per un mondo solo bastasse un solo redentore! La redenzione – pensò Mattio - era la sofferenza di Dio che avrebbe voluto riunire in sé tutte le sue parti divise e non ci riusciva, era il rimorso che lacerava il suo pensiero, d’essere lui stesso imperfetto”.

Anche qui è proclamato lo squarcio che è, in primo luogo, lo slittamento nella temporalità. E’ vero che il tempo è un’llusione, ma è pure lo spazio in cui pare crocifissa l’esistenza del cosmo, uno spazio in cui “sùbito” è già tardi.

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

23 giugno, 2012

La misteriosa morte di Serge Monast

Serge Monast (1945 - 5 dicembre 1996) è stato un giornalista investigativo del Quebec, poeta, saggista e studioso di storia segreta. Egli è conosciuto in particolare per aver denunciato il progetto della N.A.S.A. noto come Blue beam.

Al principio degli anni '90 del XX secolo, cominciò a scrivere dei saggi sul tema del Nuovo Ordine Mondiale ed a proposito delle trame ordite da sette occulte, ispirandosi per lo più alle opere di William Guy Carr.

Fondò l'Agenzia internazionale per la stampa libera (A.I.P.L., Agence internationale de presse libre), con cui pubblicò la maggior parte dei suoi libri. Le sue ricerche ottennero una buona risonanza, specialmente grazie ad un'intervista televisiva rilasciata all’ufologo Richard Glenn: nell’intervista egli ripetutamente mise in guardia l’opinione pubblica sui pericoli costituiti da un governo mondiale totalitario.

Nel 1994 uscì il suo contributo più noto il “Project Blue Beam (N.A.S.A.)”, dove è descritto con dovizia di particolari il piano ideato dalla N.A.S.A. con la complicità dell'O.N.U. (Organizzazione dei nazisti uniti, n.d.r.), volto ad imporre una religione nefanda, fondata sulla venerazione dell'Anticristo attraverso la Parousia di un Cristo tecnologico.

Come spesso avviene, la "cultura popolare" è la filigrana delle interpretazioni e delle scoperte dei ricercatori indipendenti: così alcuni episodi della saga fantascientifica “Star trek” e della sua bolsa appendice, “Star trek: the next generation”, contengono in nuce riferimenti alle macchinazioni delle élites, in particolare al Progetto Blue beam. Gli episodi sono “The God thing” e “Devil’s due”. In “Devil’s due”, sul pianeta Ventax II le nazioni sono dominate dal timor panico, poiché ritengono che il mondo sia prossimo alla fine. L’ambiente è inquinato, si susseguono i terremoti e nel cielo appaiono immagini (ologrammi) di Ardra, la “dea” con cui mille anni prima le genti di Ventax II avevano stipulato un patto: ella sarebbe tornata per salvarli dalle future calamità ed il suo avvento sarebbe stato preceduto da segni apocalittici. Ardra, in realtà, sfruttando una sofisticata tecnologia, intende ridurre in schiavitù la superstiziosa e credula popolazione, fingendo di strapparla alla catastrofe finale.

Nel 1995 Monast pubblicò la sua opera più impegnativa e dirompente, Les Protocoles de Toronto (6.6.6) per denunciare i crimini di una cricca denominata "6.6.6", mirante all'instaurazione di una dittatura planetaria.

Tra il 1995 e il 1996, il sistema cominciò a perseguitare il ricercatore canadese: non volendo che i suoi figli ricevessero un'"istruzione" pubblica, aveva deciso di educarli in casa. Le autorità gli sottrassero la prole e lo perseguirono per aver violato la legge. Monast morì di infarto il 5 dicembre 1996, all'età di cinquantun anni, il giorno dopo essere aver trascorso una notte in prigione.

Alcuni dei suoi ultimi lavori sono stati ristampati dallo studioso ed editore Jacques Delacroix.

Che cosa pensare dell’immaturo decesso di Monast? L’autore canadese fu quasi certamente assassinato per mezzo di un'arma elettromagnetica. Lunghissima è la lista degli ufologi uccisi, dei genetisti e dei ricercatori nel campo della cosiddetta “free energy”, anch’essi eliminati o di cui è stato inscenato il suicidio. Non credo che la morte di Monast sia stata naturale: chi denuncia le cospirazioni del governo ombra rischia, laddove gli pseudo-attivisti del Disclosure project non corrono né hanno corso in questi anni alcun pericolo. In Italia gli ufologi istituzionali che, da mezzo secolo, seguitano a scrivere tomi e ad organizzare conferenze su lucine nel cielo, non hanno alcunché da temere. Minimizzando o negando a priori tutti gli aspetti più spinosi della questione (rapimenti, mutilazioni animali misteriose, coinvolgimento dei militari…), costoro hanno formato un’accademia che conferma lo status quo.

Gli ufologi che, pur in buona fede, propalano un’immagine degli “alieni buoni”, anzi salvatori, portano acqua al mulino delle élites. Non si può escludere che esistano civiltà esterne benevole, ma i messaggi che provengono da sedicenti Pleiadiani, Siriani, “Fratelli dello spazio” etc. sono ingannevoli. Giustamente molti si chiedono per quale motivo i ricercatori che perorano la causa del rilascio di informazioni per opera dei governi circa i dischi volanti e l’energia libera, ignorino la Biogeoingegneria. Questi investigatori, tra l’altro, avallano la menzogna del riscaldamento globale dovuto al biossido di carbonio (!!!), attendendo risoluzioni e ragguagli dagli stessi apparati che causano i problemi e mentono in modo spudorato.

Non passa giorno in cui non si alimenti la speranza che la Cabala stia per essere esautorata: si favoleggia di arresti di massa, di una Quinta colonna pronta ad uscire dai suoi nascondigli per dare il colpo di grazia al potere, di “extraterrestri angelici” che agiranno per portare la pace e risanare il pianeta. Purtroppo queste storielle, spesso canalizzate da autoproclamatisi “maestri ascesi”, sono ripetute da molti anni, ma, con qualche scusa patetica, la data dell’intervento provvidenziale e risolutivo viene sempre procrastinata. Intanto il quadro nazionale ed internazionale si deteriora viepiù, mentre di un cambiamento positivo non si vede neppure l’ombra.

E’ imminente dunque l’ascensione, Leit-motiv di certi settori talora tangenti con il variegato movimento della New age, o monteremo sull’ascensore per l’inferno? Questo non significa scartare l’idea della palingenesi, ma il rinnovamento non può provenire dai tagliagole del sistema e da chi, in modo consapevole o no, li fiancheggia.

E’ triste, desolante ammettere che in questi mala tempora ce la dovremo cavare da soli, ma è preferibile una dura verità ad un sogno fallace.

Fonte: F. Ossola, Dizionario enciclopedico di ufologia, Milano, 1981, s.v. inerenti

Articolo correlato: Steven Greer ed il suo progetto..., 2012

APOCALISSI ALIENE: il libro

19 giugno, 2012

Senz'arte

Nella nostra società sempre più martoriata molti cercano una via di fuga nella letteratura e nel cinema d’evasione. E’ un atteggiamento che testimonia la debolezza dei fruitori e, nel contempo, la forza di un mercato che, attraverso pallidi simulacri della vera arte, crea un’oasi di plastica per uomini ormai incapaci di apprezzare i valori estetici.

Già di per sé il romanzo (ed escludo qui i romanzi aperti e policentrici) è un genere, per così dire, autoritario, poiché il narratore guida il lettore attraverso i percorsi più o meno obbligati della storia. Figuriamoci la narrativa attuale che, priva di qualsiasi profondità e pregio, è concepita per un intrattenimento non meno becero di tante pellicole triviali e delle scadenti serie televisive in voga. Il carattere autoritario e gerarchico del romanzo è qui accentuato: siamo destinatari di prodotti che impongono la loro distorta visione del mondo, traducendosi non solo in una perdita di tempo, ma pure in un volgare indottrinamento.

Il gusto del pubblico medio-basso si muove tra due poli solo apparentemente opposti: tra l’edonismo più piatto che spinge a leggere il romanzetto con cui ci si gode una mezz’ora di svago, e l’attrazione masochistica per cose dove sono esibiti ed enfatizzati i mali del mondo. Ecco allora spiegata la popolarità di dibattiti televisivi che evidenziano l’oscena scena della “politica”, il successo di telefilm che indulgono al grandguignolesco, incorniciato nel solito sciropposo dualismo “buoni contro cattivi”, in cui i “buoni” sono gli intrepidi eroi della C.I.A. e dell’F.B.I., mentre i “cattivi” appartengono immancabilmente ad Al Qaeda o a cellule affini. Le due tendenze sono accomunate da un fine compensatorio e consolatorio: il libercolo mi permette di dimenticare le brutture della vita, la trasmissione ed il filmetto orrendi mi elargiscono la speranza (ingannevole) che, alla fine, trionferà il bene, sotto forma di happy end o di Di Pietro che “non sa parlare, ma dice le cose come stanno”. Oggi poi il volgo trova uno sfogo per le sue frustrazioni nella demagogia di Grillo e nel "Movimento cinque stalle"...

In verità la “letteratura” attuale non si discosta molto da questi cliché per soddisfare i gusti di un pubblico privo del tutto di buon gusto, ignorante e superficiale. L’arte vera non promette fughe in paradisi artificiali né è sinonimo di mera distrazione: l’arte vera è problematica, contraddittoria, critica. Sprona a porsi domande, incalza il fruitore, squaderna il mondo con la sua ineliminabile contradditorietà, le sue sfaccettature.

La lettura o la visione di un quadro, di una scultura etc. sono uno sprone ad interrogare la realtà, attraverso il pensiero e la poetica dell’artista. Così, non solo il saggio, in quanto testo euristico, offre più prospettive rispetto al romanzo (al romanzo medio), ma soprattutto il saggio che si destruttura, rifiutando le facili tentazioni dell’ordine compositivo e della tesi precostituita. Emblematici, a tale proposito, sono gli "Essais" di Michel de Montaigne, libri dove le considerazioni si dipanano senza obbedire ad un rigido criterio, ad un disegno unitario. Anzi, se proprio cerchiamo una parabola negli "Essais", è quella provocatoria ed eccentrica di un discorso che, tra innumerevoli excursus, aneddoti, ricordi, dalle vette delle questioni più alte scende verso la prosaica pianura delle necessità fisiologiche.

Non si intende affermare che l’arte prescinda dal piacere, ma è un piacere raffinato, intelligente, non disgiunto dalla riflessione. Omero scrisse i suoi poemi per un uditorio che cercava il diletto, ma per il quale soprattutto delineò un sistema di valori ed una Weltanschauung in cui i Greci si riconoscevano. Omero fu filosofo, maestro di vita, vate, oltre che egregio poeta.

Possibili verità non sono contenute in un solo testo, piuttosto in un’infinità di opere. E’ proprio ciò che ci sembra meno attuale ad essere di rovente attualità. Le lingue estinte sono più vive che mai, mentre la superfetazione tecnologica è una macchina di morte nata morta. Il programma televisivo incentrato su questioni sociali ed economiche è un’accozzaglia di sciocche menzogne. E’ del tutto inutile ed inopportuno commentare i discorsi dei politici, poiché le loro parole sono o insensate o ipocrite.

La scienza del C.I.C.A.P. è come la pubblicità, falsa e scintillante, volta solo al profitto… piena, però, di cariatidi, invece che di belle donne.

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

13 giugno, 2012

Fine del mondo

Come esprimere lo spirito di un’epoca senza spirito?

“Fine del mondo”: quante volte abbiamo udito questa espressione pronunciata da chi, con sicumera, intende irridere le tradizioni che adombrano il tema del passaggio e della palingenesi - preceduti da prove terribili - da un ciclo ad un altro. Quante volte insipienti, con i loro occhi spiritati, tra malcelata paura e scherno scaramantico, ripetono “fine del mondo…”

Si replichi: la fine del mondo è già avvenuta. Essa accade ogni volta in cui una sventura, visibile o invisibile, conclamata o ignota ed ignorata, si abbatte su qualcuno o qualcosa, allorquando si è costretti a guadare il fiume.

Il nostro tempo rantola, anche se seguitiamo a mantenerlo in una condizione larvale, a somiglianza di quegli infelici senza chances che dipendono dai macchinari per la loro stentata sopravvivenza.

I volgari media hanno insinuato l’idea di fine come catastrofe planetaria ("naturale"), quasi non fossero già occorse e non accadessero tutti i giorni dinanzi agli occhi ciechi della gente. Solo l’inossidabile egoismo spinge a vedere nel flagello un evento che riguarda solo gli altri o un fatto proiettato in un futuro lontano, evanescente.

Certo, non si può escludere l’eventualità di un cataclisma globale anche imminente (una guerra? una pandemia? Un black out generale?...), ma, se succederà, sarà l’esito di un processo storico in atto almeno da secoli, non solo un’improvvisa deflagrazione. E’ un processo i cui sintomi sono manifesti, sebbene gran parte dell’opinione pubblica continui a fingere di non vederli, un po’ per autodifesa un po’ per faciloneria. E’ un cambiamento antropologico che sospinge l’umanità verso il baratro. E’ un abisso che, prima di essere il disastro sociale, politico ed economico, è la perdita di sé.

Non sappiamo in che misura altre generazioni seppero affrontare con dignità i cambiamenti ed i disfacimenti epocali. Sappiamo che la nostra non ci riuscirà, perché non si accorge del crepuscolo, anzi lo scambia per l’alba più radiosa. Non si avvertono i segni della discontinuità e, quando uno strappo violento lacera il tessuto della vita normale, lo si rattoppa prontamente. L’abito è tutto rappezzato, ma lo si indossa, come se fosse stato appena acquistato nella boutique.

Invero, per essere coscienti della crisi, è necessario avere una coscienza, accessorio che ormai è installato in pochi uomini. Affinché un’età sia conscia della propria irrimediabile putrefazione, occorre che in quell’età soffi uno spirito, ma la nostra epoca ne è del tutto priva.

Infine persino i consapevoli oggi paiono inconsapevoli.

APOCALISSI ALIENE: il libro

La squola della Gelmini - di Antonio Marcianò - Gemme scolastiche da collezionare

08 giugno, 2012

Un infinito numero

Gli ho chiesto: ‘Cosa verrà dopo il futuro? Tu forse lo sai?”
“Tornerà il passato – ha risposto Nicodemo – Cos’altro vuoi che succeda?”


“Un infinito numero” è un libro di Sebastiano Vassalli. Mecenate, Virgilio ed il suo segretario Nicodemo si inoltrano nelle terre dell’Etruria per scoprire le origini di Roma: alla fine comprendono che il tempo è un cappio mortale e la scrittura menzogna.

Vassalli è stato definito un “Manzoni senza la Provvidenza”, ma “Un infinito numero” non è romanzo storico, poiché della storia l’autore raccoglie solo qualche frammento per costruire una parabola metafisica sul nulla. Il Nostro è fondamentalmente autore nichilista: d’altronde gli stessi “Promessi sposi” - cui si richiama spesso lo scrittore genovese - se vi sradica Dio, sono un’opera mortuaria e desolata.

Così i personaggi, lo spregiudicato e miserabile Augusto, Mecenate, lubrico ed implacabile, Virgilio ed il liberto Nicodemo non sono protagonisti delle vicende, poiché non agiscono, ma sono agiti dal Fato. L’intreccio, in bilico tra quête e dolore, si dipana come un filo spinato da cui sgocciola il sangue delle vicissitudini umane, destinate a ripetersi all’infinito, precipitate nell’inferno di un perpetuo ritorno. A questo allude il titolo. Vassalli, lontano da una rievocazione idealizzante dell’antichità, ci restituisce un’immagine squallida dell’Impero augusteo e non meno disincantata del mondo etrusco. La stirpe dei Rasenna (i Rossi) – scopre il poeta di Andes – è una genìa di feroci conquistatori originari della Lidia e celebrare le mitiche origini di Roma significa mistificare la verità. Ecco perché Virgilio, abiurando la bellezza di false leggende, chiede nel testamento che l’Eneide sia bruciata. E’ comunque il misticismo dei Tirreni ad offrire ai viaggiatori nella terra dei Tusci l’opportunità di compiere un viaggio nel tempo; essi capiscono che nessuna civiltà declina, poiché ogni civiltà nasce dal disfacimento per perire nel grigiore.

E’ il mondo intero a portare su di sé l’ipoteca e l’errore dell’esistenza che è nominazione e principium individuationis. Spiega Aisna, sacerdote di Velthune, ai pellegrini nella terra dei Rasenna: “Ci fu un’epoca in cui l’universo era il regno del dio del nulla, Mantus, e della sua fedele ombra, Mania. Un giorno il dio-dea della vita, Velthune, incontrò il dio-dea del tempo, Northia. I due incominciarono a parlare e ad immaginare un ambiente più bello e confortevole del vuoto che avevano attorno: immaginarono il sole e la luna, i mari e le montagne, gli animali e le piante e tutto ciò che prendeva forma nella loro fantasia, immediatamente diventava realtà. L’universo si riempì di cose e di vita. Allora Mantus, per ristabilire il suo predominio sulle cose, inventò un nome per ciascuna di loro. Chiamò la roccia granito o selce e l’infelicità penetrò nella roccia… Poi Mantus chiamò gli alberi quercia o pino o fico o alloro e l’infelicità penetrò negli alberi. Alcuni incominciarono a perdere le foglie ed a ricrearle ogni anno nella buona stagione: tutti presero la ruggine, le muffe e furono assaliti dagli insetti nocivi.[…] Venne il turno degli animali. Mantus li chiamò lupo e pecora, falco e serpente e li costrinse ad essere infelici: a sbranarsi, ad ammalarsi, a soffrire per mancanza di acqua e di cibo. Infine Mantus si rivolse agli uomini che, fino a quel momento, erano vissuti senza nuocersi e senza conoscersi e diede un nome specifico a ciascuno di loro … e gli uomini e le donne immediatamente diventarono infelici”.

Libro dunque tetro, eppure non privo di fascino, nell’apertura di alcune pagine verso il mistero del cosmo, nel disegno di una cultura, quella etrusca, popolata di ombre, ma pure amante dei piaceri della vita.

Nell’epilogo l’io narrante, il greco Nicodemo, emerso dalle nebbie del passato, passa il testimone all’autore (ed a noi) per consegnargli la sua amara saggezza, la sua deserta verità.

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02 giugno, 2012

Il fattore Oz

Il fattore Oz, Alieni, sciamanesimo, multidimensionalità” è la nuova fatica di Enrica Perrucchietti, nota per il suo pamphlet, “L’altra faccia di Obama”. Il saggio dell’autrice cerca di contemperare le teorie scientifiche più recenti (sia evidenziato: tra loro in una certa misura incompatibili) con il pensiero della Tradizione sciamanica ed esoterica.[1] Sono dunque valorizzate le interpretazioni parafisiche in tema di contatti con gli Altri, nel solco dell’ufologia soft che affonda le radici nelle concezioni dei suoi corifei, Jacques Vallée e John Keel. La lettura del libro è appassionante e soprattutto spinge ad approfondire per mezzo della corposa bibliografia, sebbene più che fornire delle risposte, ribadisca gli interrogativi di sempre.

La rassegna di differenti indirizzi filosofici e scientifici (ma la scienza è solo una delle tante correnti filosofiche) ci conferma che siamo quanto mai lontani non solo dalla Teoria del tutto, da un’unificazione dei molteplici modelli interpretativi del mondo. Non solo, anche se si decide di circoscrivere l’ambito della ricerca al tema delle abductions, ci si impiglia in una rete di contraddizioni, sia pur feconde, tali da impedire di delineare un quadro coerente.

Ormai siamo abituati a maneggiare termini come “materia”, “energia”, “spazio”, “tempo”, “etere”, “coscienza”, persino “akasha”, “entanglement”, “non località”, “ipercomunicazione” etc., ma dobbiamo ammetterlo: se non sappiamo che cosa sia veramente la materia-energia, ancora più disarmati siamo di fronte allo Spirito. Che cos’è la Mente? Che cosa sono gli archetipi? Sono reali? Qual è la vera natura, qual è lo statuto della cosiddetta “realtà”?

Sembra comunque – il saggio della Perrucchietti ne è un’indiretta conferma – che non si possa rinunciare ad una forma di dualismo, distinguendo tra una dimensione non ilica da cui, in modo inesplicabile, è generato l’universo – lo si intenda pure come proiezione olografica. Merito del testo è sottolineare come gli uomini (non tutti!) non siano esseri confinati in un involucro caduco, ma scintille di una luce infinita: le vie per riscoprire la propria natura divina sono additate, anche se è arduo infrangere le barriere.

Lascia, invece, un po’ perplessi come in un titolo costruito sulle relazioni con l’invisibile, sia così esiguo lo spazio dedicato alla dominazione dell’umanità. Il cenno alle concezioni gnostiche circa gli Arconti avrebbe potuto costituire l’abbrivo per un’analisi metastorica, in cui il dipanarsi degli eventi è visto come riflesso di una millenaria ed occulta macchinazione. La tendenza a liquidare l’ufologia hard, quella “viti e bulloni”, trascina con sé il rischio di ridimensionare le implicazioni tecnologiche che si conclamano nelle attività di geoingnerizzazione del pianeta e nei deliri del Transumanesimo. Dubitiamo che esseri incorporei siano così condizionati ed ossessionati dalla tecnica. Si potrebbe cercare un modo per armonizzare l’ipotesi multidimensionale con quella interstellare. Perciò, pur condannando il culto di dèi che dei non sono, non escluderemmo in toto le spiegazioni di Biglino et al.

Sono ricostruzioni che si potrebbero applicare ad una parte sola dell’umanità e… delle Potenze.

[1] Di passaggio si osserva che le varie teorie (la fisica quantistica, la teoria delle stringhe, il sistema dei molti mondi, il modello olografico etc.) non riescono a spiegare – forse è tema che non suscita interesse - il mysterium iniquitatis. Il male resta così una specie di ospite ignorato.

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