14 aprile, 2013

Ermeneutica del silenzio

E’ nel silenzio più fitto che l’uomo di oggi deve trovare delle risposte. Leopardi, quando nel “Dialogo tra la Natura ed un Islandese”, interpellava la cieca forza che soggioga il cosmo, intese che l’unico responso possibile è l’eco delle proprie lancinanti questioni. Alle accorate parole del derelitto, la Natura replica con quesiti sardonici. Nel nostro tempo il mondo è muto e non riusciamo neppure più a sceneggiare una tragica sticomitia, come quella del genio recanatese. Viviamo sul bordo del silenzio, vacilliamo sul vivagno del nulla.

Quale differenza rispetto agli uomini antichi che erano adiacenti al sacro, terribile e venerando al tempo stesso! Allora, sul confine del vortice temporale, gli uomini si rivolgevano agli dei e gli dei ascoltavano. Vigeva la consapevolezza che l’invisibile era più importante del visibile. Meglio: le parvenze soprannaturali erano più dense di quelle che formano il cosiddetto mondo “reale”.

Oggi è più l’aridità che la disperazione a desertificare. Persino la disperazione può ancora sciogliere talora il gorgo dell’afasia e prorompere in un ultimo grido, ma la sterilità ci defrauda anche della compagnia offerta dagli oggetti. Le cose disanimate ancora parlavano a Landolfi che poté scrivere: “Quegli sparsi oggetti erano soltanto, ecco, protèsi con cieco dolore ad un loro irraggiungibile compimento, se è vero che orfanezza e vedovanza della patria celeste è la sorte di tutte le cose quaggiù”.

E’ così: siamo orfani della patria celeste, ma non ne siamo più neppure consci. Solo ogni tanto qualcuno avverte una confusa nostalgia, un senso di insufficienza che offusca la vita quotidiana. E’ come un velo di vapore su un vetro oltre il quale si intravede un paesaggio.

Così il silenzio compatto che cementa l’anima non è certo il silenzio interiore, il silenzio dei mistici, ma un’eco nera che ci restituisce i relitti di un mondo irrazionale, ingiustificato, dove gli eventi colpiscono a caso. Se si schivano certi feroci fendenti, si è fortunati. Si sarà fortunati, se il trapasso sarà indolore.

I superstiti vivono oggi una solitudine abissale, poiché la loro voce si consuma nella landa dell’indifferenza. L’indifferenza è il “male oscuro”. È scettro e flagello. L’unico sodalizio possibile è con un sé stesso monco o si realizza nell’occasionale empatia con i pochi che sono ancora vivi.

Si è costretti dunque ad un’ermeneutica di questo stranito silenzio. Invano si propongono surrogati di senso, sotto forma di libri e corsi che rattrappiscono la spiritualità in un grumo psichico, in un effimero oblio del male di vivere. Si ignora che la natura umana è radicalmente cambiata e la tecnica imperversa anche là dove è allogena.

Ci si ritrova a dare forme riconoscibili alle macchie di umidità su una parete, a tentare di cavare qualche pagliuzza di luce dall’oscurità. Impresa improba, mentre tutto cade a pezzi…

Vero è che, se l’umano si è sempre più allontanato dal divino, anche il divino, dal canto suo, si è ritratto e chiuso in un imperscrutabile mutismo. Eppure si continua a porre la domanda: sarebbe errore fatale non rivolgerla, come nel caso di Parsifal. Eppure abbiamo bisogno di questo buio che cancella le apparenze e ci spinge nelle segrete più tenebrose.

Annota Martin Heidegger: “Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano ad illuminarsi le vie verso ciò che salva e tanto più noi domandiamo, perché il domandare è la compassione del pensare”.

Mai siamo stati tanto prossimi al pericolo.

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