14 novembre, 2015

Thoreau e lo Stato



La disobbedienza civile è l’unico modo per obbedire alla voce della coscienza, ergo è un obbligo.

Com’è potuto succedere ciò? Com’è potuto succedere che nel luogo in cui si estendevano prati con gruppi di alberi e viottole costeggiate da siepi, dove scorrevano rogge fra campi coltivati oggi si trovi un quartiere suburbano di tetri casermoni stagliati su un cielo pieno di grovigli: oggi solo cemento, centri commerciali, monumentali rotatorie, mefitici immondezzai… La metamorfosi è avvenuta con inesorabile lentezza: prima un condominio ancora circondato dal verde, poi due, tre, quindi le strade di collegamento, i tralicci dell’alta tensione, le antenne della telefonia mobile. I suoli da agricoli diventano edificabili e la deturpazione del territorio un po’ alla volta avanza.

In modo simile i primi consorzi umani si sono trasformati in Stati, mostruose costruzioni che hanno divorato gli ultimi brandelli di civiltà. Veramente, come scrive Henry David Thoreau (Concord, 12 luglio 1817 – Concord, 6 maggio 1862), filosofo, scrittore e poeta statunitense, lo Stato è uno stupido. Oltre alla coercizione, che esplica attraverso le forze di polizia e l’esercito, per mezzo di un ginepraio burocratico (basti pensare alle infinite e cervellotiche scadenze fiscali), mercé i grotteschi tribunali, il monstrum manifesta un’irredimibile ottusità. E’ l’ottusità di chi confida solo nella violenza, nella frode, nella codardia dei sudditi e nella connivenza degli adulatori. E’ l’idiozia di chi, sopraffacendo gli uomini, dimostra la sua totale inumanità. Ribellarsi allo Stato, rinnegare tutte le sue ignobili istituzioni non è un’occasione, non è neppure un auspicio, bensì un preciso, ineludibile dovere morale. Accettare codesta compagine significa non tanto essere vili, quanto, aderendo ad una natura tarata, essere deficienti e beoti, come le norme che il Leviatano rigurgita senza requie.

La sconfessione dello Stato è il fondamento della libertà interiore, il viatico della verità, il perno della rettitudine.

Nel 1846 Thoreau rifiutò di versare la tassa (poll-tax) che il governo imponeva per finanziare la guerra schiavista contro il Messico, conflitto da lui reputato iniquo e contrario ai principi di libertà, dignità e uguaglianza sanciti dalla Costituzione degli Stati Uniti. Per questo fu incarcerato per una notte e liberato il giorno successivo quando, tra le sue vibrate proteste, sua zia pagò il tributo per lui. In “Disobbedienza civile” Thoreau scrive:

“Per sei anni non ho pagato la ‘poll-tax’’. Una volta per questo fui imprigionato, per una notte; e, mentre stavo lì ad esaminare i muri di pietra massiccia, spessi due o tre piedi, la porta di legno e ferro spessa un piede e le grate di ferro dalle quali filtrava la luce, non potevo fare a meno di rimanere colpito dall’assurdità di quell’istituzione che mi trattava come fossi semplice carne e sangue e ossa, da mettere sotto chiave. Mi stupivo che esso avesse concluso alla fine che quello fosse il migliore uso che poteva fare di me e che non avesse mai pensato di avvalersi in qualche maniera dei miei servigi. Compresi che, se c’era un muro di pietra fra me e i miei concittadini, ce n’era uno ancora più difficile da scalare o rompere prima che essi potessero arrivare ad essere liberi come lo ero io. Non mi sentii segregato neppure per un attimo e quel muro mi apparve solo un grosso spreco di pietra e di malta. Mi sentivo come se io solo, tra tutti i miei concittadini, avessi pagato la mia tassa.

Chiaramente essi non sapevano come trattarmi, ma si comportavano come persone rozze. In ogni minaccia e in ogni lusinga vi era grossolanità, poiché essi erano convinti che il mio più grande desiderio fosse quello di trovarmi dall’altra parte di quel muro di pietra. Non potevo evitare di sorridere nel vedere con quanta industriosità chiudessero la porta in faccia alle mie riflessioni, riflessioni che li seguivano fuori senza alcun impedimento peraltro e che costituivano l’unico vero pericolo. Poiché non potevano raggiungere me, avevano deciso di punire il mio corpo; si comportavano come certi bambini che, quando non possono arrivare a qualcuno per il quale nutrono risentimento, finiscono per maltrattarne il cane.

Capii anche che lo Stato era un idiota, un timorato al pari di una donnina nubile in mezzo all'argenteria, incapace di distinguere i suoi amici dai suoi nemici e così finii col perdere del tutto il rispetto che m’era rimasto nei suoi confronti e lo compatii. Lo Stato, dunque, non si misura mai direttamente con la sensibilità di un uomo, intellettuale o morale, ma solo con il suo corpo, con i suoi sensi. Esso non è dotato d’intelligenza o onestà superiore, ma solo di superiore forza fisica”.

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3 commenti:

  1. Lo stato-leviatano non utilizza la logica ma un insieme di preconcetti, dogmi e superstizioni. Inutile è tentare di opporvisi con la mente razionale, si tratta di un'eggregore forte e stratificata anche se a volte appare fragile e cieca. E' un'entità pervasiva a cui le moderne tecnologie hanno donato purtroppo un'efficienza notevole. Ovviamente tale efficienza, in caso di attacchi terroristici, scema ... ciao

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    1. Concordo in toto, Ghigo. Curioso che sia riuscito a pubblicare questo testo sullo Stato criminale quasi in concomitanza con gli eventi di Parigi in cui il Leviatano ha dato il peggio di sé.

      Ciao

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    2. L'atmosfera francese sembra davvero senza via d'uscita. Lo stato è dappertutto con la sua facciata edulcorata sin dalla propaganda illuministica (illuminata?) ed il suo vero aspetto tetro e sordo ... un conformismo dell'anticonformismo ha convinto e catturato i suoi cittadini, l'individualismo di massa! Ciao

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